L’era del calcio da fallimento. L’opera contemporanea del pallone italiano potrebbe esser vista sotto questi aspetti: ormai sono venti stagioni consecutive che le retrocessioni sembrano avere quasi un valore ornamentale.
C’era il tempo del calcio con gli organici già stabiliti a fine giugno, e quello attuale dove non si può mai dire l’ultima parola in maniera definitiva. Forse era meglio l’epoca precedente, perché questa dove il fallimento è sempre dietro l’angolo mette in angoscia tanti tifosi in giro per tutta Italia. Forse erano troppi ingenui prima di organi che dovevano controllare prima, oppure i criteri erano maggiormente rigidi? Se il calcio è sempre in vista fallimento, l’errore sta a monte.
Sono state aggirate troppe regole prima, oppure nei tempi moderni sono incomprensibili tanto da scatenare ogni estate il caos? Perché negli anni Ottanta e in quelli Novanta per far fallire una squadra ci voleva un impegno enorme, al pari forse di vincere uno scudetto. Così come trascinarla in difficoltà economica, anche se spesso c’erano dei criteri quasi ad hoc per salvare una stagione.
Quando ancora contava la biglietteria (senza considerare l’ultimo anno e mezzo da covid), c’era un maggior guadagno sugli acquisti e non arrivavano in mezzo i procuratori a chiedere cifre esorbitanti per i loro campioncini da social.
Il calcio italiano, soprattutto negli ultimi, è diventato una sorta di teatro dove i poveri club diventano sempre più poveri. Con una pressione fiscale importante, molti presidenti hanno perso e perderanno sicuramente la bussola sul piano finanziario.
Negli ultimi vent’anni sono stati più di cento i club non iscritti ai loro campionati di appartenenza, a volte poi sfruttando il Lodo Petrucci per gli anni successivi, altre volte anche per situazioni paradossali.
A rimetterci sono stati alcune volte i calciatori, altre volte i poveri (in tutti i sensi) collaboratori. Perché l’adagio del calcio italiano a volte il fallimento se lo va a proprio a cercare, perché il peccato sembra pagare in tempo i magazzinieri, mentre il calciatore gira beato con il suo suv. Paradossi incredibili, guardando alle società.
Perché è il calciatore l’uomo che fa sognare una tifoseria, anche se poi è il magazziniere, il segretario e il team manager a garantirgli il suo ingresso in campo. Un po’ come una fiera dei sogni e un paese dei balocchi perenne, che promette una sorta di santità mai vista anche a mecenati che poi spariscono alle prime difficoltà.
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Il calcio italiano, quindi, ha addirittura superato la maggiore età per gli ambiti di mancate iscrizioni e fallimenti. Con la riforma dei professionisti che si allunga sempre più: bloccare i ripescaggi per dieci anni, intanto, potrebbe essere una drastica ma necessaria soluzione per tutti.